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Una sorprendente sentenza del Tribunale di Milano sul danno da trasfusioni di sangue infetto

Certamente le sentenze di primo grado, se impugnate, possono sempre essere riformate in Corte d’Appello o in Corte di Cassazione, ma è indiscutibile che la decisione pubblicata lo scorso 10 settembre 2007 dal Tribunale civile di Milano, Sezione Decima Civile (n. 10104) rappresenti una significativa “inversione di tendenza” rispetto al trend, sfavorevole per i danneggiati, che le Corti di merito, con l’eccezione di quelle romane, avevano mostrato negli ultimi anni nella nota materia del risarcimento dei danni da trasfusioni di sangue infetto.
Premesso che la vicenda processuale vede coinvolto non il Ministero della Salute, ma una struttura ospedaliera, tre appaiono i motivi d’interesse della recentissima decisione, riguardante trasfusioni praticate nel lontano 1974.
In primo luogo la sentenza si segnala per considerare accertato il nesso causale tra le trasfusioni e la patologia contratta in assenza d’informazioni sui donatori e per ritenere sussistente la responsabilità dell’ospedale (pur in epoca ben anteriore al famoso 1988 apparentemente indicato dalla Cassazione come sbarramento temporale prima del quale, almeno per l’epatite C, non potrebbero configurarsi responsabilità di sorta) sulla base delle argomentazioni che, per chiarezza, riproduciamo per esteso:
Sulla base di quanto sopra può concludersi che nel 1974, epoca in cui l’opponente fu ripetutamente sottoposta a trasfusioni di sangue intero presso la struttura ospedaliera …….., anche se la definizione dell’epatite post-trasfusionale allora conosciuta come NANB era ancora in fieri, e solo successivamente fu individuato il virus HCV, la scienza medica aveva già consapevolezza dell’esistenza della patologia che poi fu denominata epatite C. Se, dunque, anche prima della identificazione del virus HCV, costituiva nozione – quantomeno – scientifica che il sangue e il materiale ematico potessero costituire veicolo di contagio di infezioni al fegato, deve ritenersi che tale consapevolezza del rischio di contagio – esigibile quantomeno dagli operatori professionali del settore, e dunque anche dal personale sanitario della struttura dell’opposta – avesse, già tempo prima dei fatti di causa (1974), creato la norma prudenziale che imponeva di ridurre ai casi strettamente necessari l’utilizzo di materiale ematico non dello stesso paziente, e il dovere di diligentemente verificare, nel modo più approfondito possibile, la provenienza e la corretta conservazione e il corretto trattamento di detto materiale, al fine di evitare la somministrazione di sangue infetto e il contagio al trasfuso.
In altre parole le conoscenze dell’epoca già imponevano, ancorché non fossero ancora state identificate o neppure conosciute alcune patologie, l’adozione di misure precauzionali (specie in fase di raccolta) che, se compiutamente attuate, avrebbero grandemente ridotto le possibilità di contagio del donatario e di procurargli danno (permanente) alla salute.
A conferma della conclusione che già nei primi anni ’70 la comunità medicoscientifica era a conoscenza delle possibilità che il sangue trasfuso veicolasse infezioni e contagio, si ……… ricorda che già per Cass. S.U. 19.6.36 costituiva nozione “di comune esperienza che la trasfusione di sangue, rimedio prezioso per casi clinici talvolta disperati, è anche il mezzo diretto e sicuro per comunicare infezioni da soggetto a soggetto”.
Inoltre atti normativi risalenti ai primi anni ’70 (come il d.m. 18.6.71, la circolare ministeriale 30.6.71 n. 1188, il d.p.r. 24.8.71 n. 1256) evidenziano la conoscenza, anche a livello istituzionale, ciò che presuppone che la stessa sia stata precedentemente acquisita ed elaborata a livello scientifico, della possibilità di contagio per mezzo di emotrasfusioni.

Un secondo e, se possibile, ancor più significativo profilo d’interesse è rappresentato dalla problematica della decorrenza della prescrizione.
In questa ipotesi, di responsabilità tipicamente contrattuale (con conseguente prescrizione decennale), il giudice ha ritenuto di richiamarsi ai principi enunciati dalla nota sentenza della Corte di Cassazione n. 2645/2003, i quali finora erano stati ritenuti applicabili alla sola responsabilità extracontrattuale.
Così argomentando il momento iniziale della prescrizione è stato fatto decorrere non dalla data dell’evento trasfusionale (1974), ma dalla data in cui, per la prima volta, il danneggiato ha appreso di essere affetto dal virus HCV (1995), con conseguente piena tempestività dell’azione risarcitoria proposta.
Da ultimo, osserva ancora il Tribunale di Milano, mentre il risarcimento costituisce l’obbligazione patrimoniale conseguente al danno cagionato da inadempimento contrattuale caratterizzato da colpa, qualificabile anche come illecito ex art. 2043 c.c., l’indennizzo di cui alla L. 210/92 ha diversa natura giuridica, rispondendo a finalità di solidarietà sociale e di assistenza a favore di soggetti che hanno contratto determinate patologie in conseguenza di emotrasfusioni (o vaccinazioni), a prescindere dall’accertamento di una colpa o di un inadempimento imputabile a taluno, bensì sul semplice presupposto della sussistenza di nesso causale fra la sottoposizione a trasfusione/vaccinazione e l’insorgenza della patologia. Dalla diversità della fonte dell’obbligazione, della natura giuridica delle attribuzioni patrimoniali e dei soggetti obbligati discende la piena cumulabilità dei predetti indennizzo e risarcimento.
Nella consapevolezza che la decisione ora commentata potrebbe essere ribaltata in grado d’appello, considerata l’incertezza che sembra avvolgere la questione della definizione transattiva con il Ministero della Salute delle cause proposte dai trasfusi occasionali, ci sembra prudente suggerire a tutti i danneggiati, in previsione di un’eventuale successiva ulteriore azione risarcitoria, l’inoltro di una lettera raccomandata, interruttiva della prescrizione alle strutture ospedaliere presso cui furono effettuate le trasfusioni, prestando attenzione alla esatta denominazione della struttura e verificando se, nel corso degli anni, al vecchio ente ospedaliero sia subentrata un’Azienda ospedaliera.
In caso affermativo, onde evitare cattive sorprese, sarebbe bene accertare l’eventuale esistenza di una gestione liquidatoria del vecchio ente cui pure indirizzare – unitamente alla Regione di appartenenza – le pretese giacchè solitamente le neo-costituite aziende ospedaliere non “ereditano” debiti e crediti, anche potenziali, dei soggetti cui subentrano.
Alleghiamo qui di seguito una bozza di lettera raccomandata – pensata per i trasfusi occasionali – da inoltrare alle aziende ospedaliere, alle gestioni liquidatorie ed alle regioni di riferimento.
Fac-simile di lettera interruttiva da inoltrare agli ospedali
Sentenza n.10104/2007 del Tribunale di Milano, Sezione X Civile