Maggio 6

Dopo oltre 16 anni di battaglie la svolta: il Consiglio di Stato “striglia” finalmente il Ministero della Salute sulla gestione delle transazioni ex legibus nn.222 e 244/2007

Con due fondamentali pronunce ottenute dal nostro studio, la n.3376 del 26 aprile e la n.3533 del 6 maggio 2021, la terza sezione del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, occupandosi delle domande di transazione presente da due nostri Clienti, critica pesantemente la condotta dell’Amministrazione nella procedura per le transazioni delle cause promosse da soggetti irreversibilmente danneggiati da epatiti post-trasfusionali e di fatto ordina al commissario ad acta di procedere alla liquidazione dell’importo dovuto.
Le premesse da cui muovono i giudici descrivono un travaglio di oltre 16 anni di contenzioso, nel quale i Clienti, armati di una encomiabile pazienza e forza d’animo, hanno riposto fiducia incondizionata nell’operato dello studio.
I danneggiati, già beneficiari dell’indennizzo di cui alla legge 210/1992, avevano agito giudizialmente nel lontano 2005 contro il MINISTERO DELLA SALUTE al fine di ottenere il giusto risarcimento dei danni subiti.
Successivamente, nel gennaio 2010, avevano presentato – sempre al MINISTERO domanda di transazione ai sensi delle leggi nn.222 e 244/2007, trasmettendo la documentazione richiesta.
Dopo un silenzio di oltre tre anni, nel corso dei quali erano intervenuti individualmente nella class action promossa avanti al TAR Lazio da alcune associazioni di danneggiati per sbloccare la procedura e culminata nella sentenza n.1682/2012, era sopraggiunto un preavviso di rigetto con il quale l’Amministrazione aveva loro comunicato che, “con riferimento alla domanda di adesione alla procedura transattiva indicata in oggetto per l’accesso alla successiva fase di stipula delle singole transazioni si rappresenta che la domanda non è accoglibile in quanto risulta che sia decorso il termine di cui all’art.5 comma 1 lettera a) del D.M. 04.05.2012 ed inoltre non risulta che l’evento trasfusionale rientri nell’ipotesi di cui all’art.5 comma 2 del D.M. 04.05.2012”.
Dopo l’invio di articolate controdeduzioni, da un lato era intervenuta sentenza con la quale il Tribunale di Roma aveva riconosciuto la responsabilità del MINISTERO per l’avvenuto contagio, accertando il loro diritto al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio, mentre dall’altro, nell’ottobre 2014, era sopraggiunta invece una nuova comunicazione, a firma del commissario ad acta designato dal TAR Lazio con la sentenza n.4029/2013, intervenuta a seguito della class action amministrativa, con cui si era comunicato che, “con riferimento al preavviso, preso atto che le controdeduzioni presentate dalla S.V. non contengono ulteriori elementi utili ai fini dell’applicazione dell’art.5 c.2 del D.M. 04.05.2012, si rappresenta che la domanda di adesione alla procedura transattiva indicata in oggetto per l’accesso alla successiva fase di stipula delle singole transazione è da ritenersi non accolta”.
In sostanza, mentre si era ritenuto superato il paletto ex art.5 c.1 DM 04.05.2012 (alla luce di quanto dedotto nelle controdeduzioni al preavviso di rigetto e della favorevole sentenza nel frattempo ottenuta dal Tribunale di Roma), si era affermato che la – sola – esistenza di eventi trasfusionali occorsi ante 1978 era di ostacolo al perfezionamento della transazione ex art.5 c.2 DM 04.05.2012.
I danneggiati avevano proposto tempestivo ricorso avverso il provvedimento di non ammissione alla successiva fase di stipula della transazione.
Dopo un primo giudizio negativo avanti al TAR Lazio, annullato dal Consiglio di Stato nel 2015, il ricorso era stato nuovamente riassunto avanti al TAR Lazio che, con sentenza n.10156 del 10.10.2017, passata in giudicato, aveva annullato la disposta esclusione stabilendo inoltre che la decisione fosse comunicata anche al commissario ad acta, il quale aveva sottoscritto i provvedimenti di esclusione annullati.
Sennonché, in perdurante assenza di comunicazioni da parte del commissario ad acta che recepissero quanto stabilito in sentenza (e dunque, essendo venuto meno anche il secondo degli elementi ostativi indicati nell’originario preavviso di rigetto, che li ammettessero alla successiva fase di stipula della transazioni, nell’agosto 2018 avevano inoltrato diffida stragiudiziale a voler riscontrare in via definitiva la propria domanda di adesione e ad adottare i provvedimenti conseguenti richiesti, entro e non oltre il termine di 30 giorni.
Anche tale termine era decorso infruttuosamente ma, soprattutto, era spirato anche il termine per eventualmente accedere al beneficio della c.d. “equa riparazione” di cui all’art.27bis del dl 24.06.2014, n.90, convertito dalla l. 11.08.2014, n.114, termine che, originariamente fissato dal legislatore al 31.12.2017, era stato prorogato al 31.12.2018 ai sensi dell’art.1 c.1141, lett.a) della l. 27.12.2017, n.205.
Dopo la notifica di un nuovo ricorso per ottemperanza, era sorprendentemente sopraggiunto, senza preliminare comunicazione ex art.10bis l.241/90, il rigetto definitivo della domanda di transazione.
Con tale comunicazione il MINISTERO aveva affermato che, “con riferimento alla domanda di adesione indicata in oggetto, per l’accesso alla successiva fase di stipula delle singole transazioni si conferma che la predetta domanda non è accoglibile, in quanto risulta essere decorso il termine di cui all’art.5 c.1 lett. a) del D.M. 04.05.2012 – conformemente a quanto ritenuto dall’Avvocatura Generale dello Stato nel parere reso a seguito della formale richiesta dello scrivente – considerato che, allo stato non risulta esservi un atto interruttivo del termine di prescrizione”.
I danneggiati impugnavano in un primo tempo il diniego, ma il TAR Lazio rigettava il loro ricorso.
I clienti non si perdevano d’animo e si rivolgevano nuovamente al Consiglio di Stato che ribaltava completamente la decisione di primo grado mettendo probabilmente fine ad un calvario di oltre 15 anni e ad una serie infinita di ricorsi.
Sul piano metodologico, i giudici di appello hanno anzitutto osservato che l’esame dei motivi d’impugnazione deve seguire un “criterio di efficacia sostanziale del principio costituzionale di tutela giurisdizionale”, e deve pertanto prendere avvio dalle censure “volte a far valere la fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere in giudizio” ed “estendersi alle altre, volte invece a far valere solo la illegittimità o finanche la nullità del diniego, solo nel caso in cui le prime non si rivelino fondate”.
Sulla scorta di tali condivisibili premesse, volte a rendere finalmente effettivo il precetto ex art.1 c.p.a., il CdS ha ritenuto l’impugnazione fondata “relativamente alle censure concernenti il mancato apprezzamento, da parte del TAR, dei motivi del ricorso di primo grado volti a far valere la violazione di legge e del giudicato, l’irragionevolezza, la intrinseca contraddittorietà e quindi la manifesta ingiustizia dell’impugnato diniego, illegittimamente adottato, in violazione dei fondamentali principi di tutela dell’affidamento e della buona fede connaturati all’ordinamento nazionale e comunitario, sull’erroneo presupposto della carenza di due dei prescritti requisiti”.
Proseguendo nell’esame dei motivi di gravame, il Collegio ha rilevato che, “indipendentemente da ogni valutazione circa le opposte deduzioni concernenti la mancata eccezione di prescrizione da parte dell’Amministrazione nel primo giudizio instauratosi davanti al giudice civile e circa il valore interruttivo da riconoscere, secondo un criterio di buona fede, alla volontà espressa nei molteplici atti adottati dall’interessato al fine di accedere al previsto indennizzoi “plurimi interventi legislativi”, previsti e disciplinati ex legibus n.222/2007, art.33 e n.244/2007, art.2, c.360, “rispondono …… ad una evidente ratio equitativa volta a contenere il conseguente – imponente e finanziariamente molto oneroso – contenzioso risarcitorio ….”.
Pertanto, secondo il CdS, “il giudice amministrativo deve prendere atto dell’avvenuto conferimento, all’Amministrazione, di una potestà pubblicistica, e quindi del potere-dovere di ristorare il danno indebitamente subito dai pazienti emotrasfusi, anche stipulando una transazione con ogni soggetto richiedente qualora lo stesso risulti oggettivamente compreso fra quelli danneggiati ed abbia formulato “domanda di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 ss. c.c.” ovvero abbia presentato “domanda di adesione alla procedura transattiva, di cui alla l. 244 del 2007, entro il 19 gennaio 2010”.
E ancora: “alla luce della predetta previsione di legge speciale, risulta evidentemente ultroneo ogni diverso ed ulteriore limite prescrizionale o temporale previsto dalla normativa codicistica, discendendone la impossibilità di applicare la ordinaria disciplina prescrizionale per la parte in cui ciò impedirebbe di dare attuazione al chiaro disposto della citata previsione di legge speciale”, con la conseguenza che, da un lato, “in presenza di una domanda di risarcimento ex art.2043 c.c. ritualmente proposta (e peraltro accolta dal Tribunale civile di primo grado) e di plurime domande di indennizzo reiteratamente proposte dall’interessato già prima dell’azione in giudizio, la previsione di cui al D.M. 04.05.2012, art.5, comma 1, lett.a), non poteva ritenersi ostativa alla stipula della richiesta transazione mediante il richiamo a termini prescrizionali in realtà non applicabili alla fattispecie in esame” e, dall’altro “non è quindi possibile individuare particolari ragioni ostative … al fine di giustificare la non ammissione dell’appellante alla procedura transattiva”.
Queste, infine, le conclusioni rassegnate dai giudici di Palazzo Spada: “I tempi e le modalità del diniego, opposto dopo il decorso dei previsti termini procedimentali e pur dopo plurime pronunce del giudice civile e di quello amministrativo, anche in sede di ottemperanza, di accoglimento della domanda di ammissione dell’appellante, indipendentemente da ogni ulteriore valutazione di legittimità hanno poi determinato una situazione oggettivamente idonea a generare e poi violare un legittimo affidamento dell’appellante circa il buon esito della propria domanda …….. concretando il dedotto vizio di violazione del principio di buona fede di tutela dell’affidamento.
Dalle pregresse considerazioni emerge l’irragionevolezza e contraddittorietà dell’azione del Ministero intimato, essendo state messe in atto attività non coerenti con la necessità di realizzazione di interessi meritevoli quali quello di un malato talassemico, affetta da patologie causate dal sangue infetto trasfusogli, ad accedere alla procedura transattiva nel rispetto delle competenze e delle procedure espressamente previste dalla vigente legislazione. La descritta irragionevolezza dell’impugnato provvedimento e la conseguente ingiustizia delle sue conseguenze per l’appellante determinano altresì un giudizio di sviamento dalle funzioni istituzionali attribuite al Ministero dalle citate disposizioni di legge e di violazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione di cui all’art.97 Cost. nonché del generalissimo principio dell’ordinamento nazionale e di quello euro unitario di tutela dell’affidamento dell’appellante. Al riguardo, deve essere infine segnalato che questa stessa Sezione, con sentenza del 7 gennaio 2021, n.232, ha accolto un ricorso collettivo di tenore analogo a quello del ricorso in esame, e per l’effetto ha ordinato al commissario ad acta già nominato “il riesame delle domande dei ricorrenti volte all’adesione alla procedura transattiva, superato l’ormai illegittimo parametro temporale alla stregua del quale non hanno accesso alla predetta procedura coloro per i quali risulti un evento trasfusionale anteriore al 24 luglio 1978”.
In conclusione, l’appello deve essere accolto e, per l’effetto, in riforma dell’appellata sentenza deve essere accolto il ricorso di primo grado, dichiarando la nullità del diniego.
Ne consegue l’obbligo del nominato commissario ad acta di riesaminare la domanda dell’odierno appellante, ammettendolo alla procedura transattiva ai fini della corresponsione del previsto indennizzo, maggiorato degli interessi moratori quale importo forfettario di risarcimento del danno derivante dal colpevole ritardo dell’amministrazione, ove non risultino motivati profili ostativi specificamente riferiti alla carenza di requisiti soggettivi del singolo richiedente diversi da quelli fatti oggetto del presente contenzioso”.

 

Sentenza del Consiglio di Stato n. 3376 del 26.04.2021

Sentenza del Consiglio di Stato n. 3533 del 06.05.2021

Giugno 1

L’indennizzo ex lege 210/1992 spetta anche ai soggetti contagiati da HCV a seguito di dialisi

Con sentenza n.1625 del 31 maggio 2017 il Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, ha riconosciuto il diritto all’indennizzo ex lege 210/1992 ad un danneggiato assistito dal nostro studio che, in conseguenza della inadeguata pulizia del macchinario utilizzato per la dialisi, ha purtroppo contratto il virus dell’ HCV.
Il tribunale ha quindi mostrato di condividere l’orientamento giurisprudenziale inaugurato con Cass. Sez. 3, 16/04/2013 n. 9148, a mente della quale “L’art. 1, comma 3, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (che contempla un’indennità in favore dei soggetti emotrasfusi per danni irreversibili da epatiti post-trasfusionali), a seguito della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 28 del 2009, deve essere interpretato in modo costituzionalmente orientato e dunque alla luce del nuovo significato che l’enunciato normativo ha assunto in forza della predetta declaratoria di illegittimità costituzionale, nonché di altra precedente recata dalla sentenza n. 476 del 2002. Ne consegue che la norma deve essere intesa nel senso di includere, nel rischio per il quale essa prevede la corresponsione di un indennizzo, anche quello della contaminazione del sangue del paziente dializzato a causa di una scarsa pulizia del macchinario utilizzato per la dialisi, che determini la persistenza di sostanza ematica infetta di altro paziente”.
Se può naturalmente registrarsi grande soddisfazione per il risultato raggiunto in sede giudiziaria, che apre in prospettiva la strada ad iniziative di analogo tenore per ampliare la portata applicativa della legge 210/1992, va viceversa manifestata grande preoccupazione per la prassi, evidentemente assai più diffusa di quanto si possa pensare (e probabilmente legata a esigenze di contenimento della spesa pubblica), di utilizzare il medesimo macchinario tanto per soggetti dializzati già contagiati dal virus dell’HCV quanto per soggetti non ancora contagiati.
Sapere che ancora nel 2012 (data alla quale risale con certezza il contagio) un ospedale pubblico dell’hinterland milanese utilizzava con assoluta disinvoltura (e forse utilizza tuttora) un unico macchinario per trattare, indifferentemente, dializzati affetti da HCV e dializzati non ancora affetti da tale infezione appare quanto meno sconcertante a nulla valendo le formali giustificazioni di rito addotte dalla struttura circa la corretta applicazione delle linee guida e/o il richiamo alla fantomatica “letteratura scientifica“, troppo spesso invocata a sproposito, come se bastasse che un dato argomento non sia mai stato adeguatamente trattato in quella sede per escludere la probabilità che, nel caso concreto, un dato evento non sia sia invece verificato.

Maggio 18

Milano riafferma la responsabilità del Ministero della Salute anche per trasfusioni di sangue infetto precedenti al 1978 ed il carcinoma epatico è una lesione nuova, idonea a far decorrere ex novo il termine di prescrizione per agire in giudizio

Con due sentenze, pubblicate a distanza di un giorno, la Corte d’Appello (sentenza 16 maggio 2017, n.2105) prima ed il Tribunale di Milano poi (sentenza 17 maggio 2017, n.5551) hanno riaffermato – in casi seguiti dal nostro studio – la responsabilità del Ministero della Salute per trasfusioni di sangue infetto somministrate rispettivamente nel 1976 e nel 1975 e dunque in epoca anteriore a quel 1978 che, incomprensibilmente, l’Amministrazione si ostina a voler indicare quale “sbarramento temporale” prima del quale non sarebbero ravvisabili responsabilità ministeriali in punto di omessa vigilanza sul sistema-sangue.
Tali sentenze, in effetti, non fanno che avvalorare la piena fondatezza dell’ormai granitico orientamento assunto dalla stessa giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione, sentenze nn.9549 e 9550 del 13 aprile u.s.).
Tralasciando l’entità non trascurabile dei risarcimenti accordati dai giudici milanesi nei due casi recentemente decisi (rispettivamente quasi 650.000 euuro ed oltre 230.000 euro), mi pare davvero importante e significativo il principio affermato dal Tribunale di Milano nella seconda sentenza.
L’epatocarcinoma rappresenta, è vero, una nota complicanza dell’infezione da epatite C, ma non può per questo considerarsi un mero aggravamento del danno già insorto.
Al contrario tale complicanza costituisce manifestazione di una lesione nuova ed autonoma che pone il danneggiato, già portatore del virus, di fronte ad una consapevolezza diversa in relazione alla notevolmente maggiore gravità e diversa situazione di danno che la malattia oncologica comporta.
Dall’applicazione di tale principio derivano due importanti conseguenze, fatte proprie dal tribunale milanese:
1) se anche è prescritto il danno epatico originariamente subito per effetto del contagio, altrettanto non può dirsi per il danno, nuovo e diverso, insorto per effetto dell’epatocarcinoma;
2) non è possibile scomputare l’indennizzo percepito per una patologia (epatopatia cronica cirrotica HCV correlata) dal risarcimento riconosciuto per una patologia diversa quale l’epatocarcinoma.
Pertanto, pur ovviamente augurando che nessuno abbia di questi problemi in futuro, è doveroso segnalare come la verifica sull’opportunità di agire in giudizio per richiedere l’eventuale risarcimento dei danni sia effettuata – anche per quanto riguarda il delicato problema della prescrizione – caso per caso, avuto riguardo alla specificità del singolo danneggiato.

Avv. Simone LAZZARINI

Giugno 23

Il TAR di Brescia recepisce finalmente i principii dettati dalla CEDU in materia di pagamento di somme dovute ai privati da parte della Pubblica Amministrazione: la mancanza di disponibilità finanziarie su un apposito capitolo di bilancio non è un’esimente per non onorare i debiti dell’amministrazione accertati mediante sentenza

Con sentenza n.869 depositata in data 23 giugno 2016 il TAR Brescia è tornato ad occuparsi della nota questione della mancata esecuzione delle sentenze civili, ormai passate in giudicato, con le quali lo Stato (nel caso di specie il Ministero della Salute) è condannato a versare, a titolo di indennizzo ex lege 210/1992 e/o di risarcimento del danno, somme anche ingenti in favore dei privati cittadini.
Mentre però molti TAR sparsi per l’Italia tendono incomprensibilmente a concedere all’Amministrazione un ulteriore termine per adempiere (che va a sommarsi a quello, non breve, già trascorso dalla data in cui la sentenza che si vuole venga pagata è stata emessa), il TAR di Brescia ha condivisibilmente ritenuto di adottare una soluzione che appare certo più in linea con le esigenze di garantire al privato una tutela giurisdizionale effettiva, conforme alle raccomandazioni provenienti dalle istituzioni internazionali.
Il Collegio bresciano, tenendo conto del rispetto del termine dilatorio di centoventi giorni dalla notificazione del titolo esecutivo e del tempo già trascorso dal deposito della sentenza della Corte d’Appello-Sezione Lavoro di Brescia n. 491/2013, ha ritenuto preferibile nominare direttamente il commissario ad acta, “che dovrà adottare tutti i provvedimenti amministrativi e contabili necessari, fino all’emissione del mandato di pagamento a favore del ricorrente. Questo compito è attribuito al responsabile della DG Vigilanza sugli Enti e Sicurezza delle Cure presso il Ministero della Salute, in considerazione dell’attuale competenza specifica di tale articolazione organizzativa in materia di indennizzi. Trattandosi di un dirigente dell’amministrazione convenuta in giudizio, non appare necessario fissare alcun compenso”; il commissario ad acta dovrà far conseguire alla ricorrente quanto dovuto in forza della citata sentenza n. 491/2013, passata in giudicato, con gli interessi legali fino al saldo, nonché le spese del presente giudizio (liquidate come in dispositivo) e il rimborso del contributo unificato; il termine di emissione del mandato di pagamento è fissato in sessanta giorni dal deposito della presente sentenza.
Di particolare importanza appare il rilievo che “la mancanza di disponibilità finanziarie su un apposito capitolo di bilancio non è un’esimente per non onorare i debiti dell’amministrazione accertati mediante sentenza (v. CEDU GC 29 marzo 2006, Cocchiarella, punto 90; CEDU Sez. II 21 dicembre 2010, Gaglione, punto 35). L’amministrazione è quindi tenuta, direttamente o su impulso del commissario ad acta, a operare le necessarie variazioni di bilancio per reperire fondi sufficienti al pagamento delle somme dovute (v CEDU, Cocchiarella, cit., punto 101; CEDU, Gaglione, cit., punto 59), anche modificando le priorità di spesa precedentemente stabilite.”